2002
            DIDONE
            
             La tragedia di Didone regina di  Cartagine di Cristopher Marlowe è una versione teatrale dei libri primo,  secondo e quarto dell' Eneide, e a rammentarcelo era anni fa J. Rodolfo  Wilcock, in veste di prezioso traduttore di questo poema-copione, oltre che  dell' opera omnia teatrale, di un autore scomparso neanche trentenne, nato  nello stesso anno di Shakespeare.
  Pare sia stato documentato che dei 1736 versi  costituenti la Didone  marlowiana quasi duecento siano il corrispettivo esatto di Virgilio e oltre  quattrocento ne riflettano da vicino il contenuto, se non la forma. Facondo e  titanico, lo spettacolo è una sorta di sceneggiatura epica che mette alla prova  il destino di un Enea esule e pioniere in rotta nel Mediterraneo per fondare le  sorti di Roma, naufrago sulla costa di Cartagine, assistito dalla locale regina  Didone il cui legame d' affetto, per poco ricambiato, sappiamo che si muta in  costernazione suicida quando l' eroe viene precettato alla sua missione, e  salpa di nuovo con la flotta da lei riarmatagli. Sembra, così espresso, un  libretto operistico, ma il XVI secolo a cui risale la scrittura è  insospettabile, e semmai vi si scorge un crocevia di solari civiltà, quelle  fenicio-puniche, considerate attraverso il Medioevo inglese e il raziocinio di  Cambridge dove appunto Marlowe studiò e trasferì nella propria lingua,  invaghendosene, i fasti latini. 
  Nella Sicilia di oggi, storica dirimpettaia di  Cartagine, sull' altura dei Ruderi di Gibellina, di fronte a uno scenario di  teatro rivierasco, sabbioso e insieme roccioso che millenariamente ridà  orgoglio a un luogo di calamità, s' è assistito a un inedito allestimento di  questo esordio di Marlowe come drammaturgo. E' stata una kermesse, con circa  una sessantina di attori, con macchine stupefacenti e memorabili di Arnaldo  Pomodoro, con monili, strumenti arcaici, cornucopie di trine, simbologie  tribali di una cultura nord-africana liberamente ritratta come se tutto fosse  permeato da un geroglifico più rilevante della pur bella eloquenza lasciataci  da Wilcock, appena sfoltita e mediata dal giovane regista (pour cause) tunisino  Cherif che certo doveva molto fare da spola nella disputa fra etnie, mondi  mitologici e terracquei, universi arabi e filo-europei, passato e presente. Non  è certo, questa Tragedia di Didone, una "Tragèdie de Carmen", vale a  dire che l' intreccio che vincola e poi disgrega la regina ed Enea non si fonda  su patimenti solo personali, sentimentali: l' imperscrutabilità del rapporto  individuo-ordine ha la meglio, quanto meno in Virgilio, nella fonte. Tuttavia  Marlowe si concesse poi qualche licenza: il libico re Iarba, corteggiatore  strenuo di Didone, assurge fortemente al ruolo di rivale di Enea, e Anna, la  sorella della regnante, manifesta per questo sire "indigeno" una  propensione tacita ma accorata. Il Giove di Marlowe esterna per il vezzoso  Ganimede una simpatia particolare, così come la Nutrice si candida a una  "Grazie zia" in costume. 
  Queste concessioni non sono trascurate nel  coordinamento attuato da Cherif cui viene decisivamente in aiuto un apparato  ricco di effetti, una memoria collettiva che non ignora le malizie infuse ad  esempio da Metastasio nella sua "Didone abbandonata" con aggiunta  però attuale di melò e proporzioni che attingono a manifatture moderne. Non può  tacersi, insomma, il fondamentale brevetto che le strutture di Pomodoro  appongono all'intero spettacolo: oggetti di mastodontica foggia a cominciare da  quel disco (l' "oscillum" di terracotta allora in uso?) ruotato in  senso orizzontale da una decina di gibellini, con sopra un Olimpo di garza, gli  dei in taffetà. Il relitto di Ulisse è un fiorire di tronconi incagliati, e il  muro solenne di Cartagine riserva bastioni girevoli, fenditure, doppi volti. Ma  badando a citare l' imagèrie primitiva di costumi zoomorfici o alla Salomè,  viene da constatare che i colpi di scena sono prodotti da una testa metallica  di cavallo, gadget di Troia, scorcio risalente a Fidia, la cui smisurata  ganascia qui si abbassa come un ponte levatoio, anche se la suggestione nell'  impatto ravvicinato spetta a un aratro alto sei metri, trofeo ora innocente e  ora bellicoso di una civiltà atavica. Se non andiamo errati, alla conta mancava  solo l' apparizione di un globo di fuoco sostituente la pira in cui s' immola  per disperazione Didone, seguita da Iarba e da Anna: nell' epilogo vediamo solo  una fotoelettrica, e una luttuosità, come dire, discreta. Il testo, Virgilio a  parte, è denso, delicato, anche monocorde, percorso a ritroso dalla regia con  un inserto dal Tamerlano sempre di Marlowe che spiegherebbe le radici del  potere di Iarba, con licenza d' opposto segno quando Venere canta "La vie  en rose" ad Ascanio per farlo addormentare. 
  Gli attori affiatano il loro  potenziale un po' più nella seconda parte. L' elogio più pieno a Pamela  Villoresi, una Didone tattica, vulnerabile, calma, dolcissima, dignitosa, all'  occasione sgranante anche un bel grammelot di donna. Massimo Belli è un Enea  non spavaldo, non inquieto, non irreprensibile, non cosciente. Pudica come una  Ismene, Olimpia Carlisi deterge di ogni enfasi il personaggio di Anna. Antonio  Piovanelli fa uno Iarba di suscettibilità da parterre lirico. Si distinguono  bene le voci di Massimo Popolizio (Giove), Anna Nogara (Venere) e Roberto  Trifirò (Acate). Impagabili i bambini di Gibellina che incarnano una ressa  primigenia e baloccante.