TEMPORALE
1980
Piccolo Teatro di Milano
TEMPORALE
Autore August Strindberg
Traduzione di Luciano Codignola
Versione scenica e regia di Giorgio Strehler
Scene di Ezio Frigerio
Costumi di Franca Squarciapino
Musiche di Fiorenzo Carpi
Realizzazione effetti elettrici speciali di Roberto Modica
Interpreti Tino Carraro (il Signore), Franco Graziosi (suo fratello), Gianfranco Mauri (il pasticciere Starck), Elisabetta Torlasco (Agnes), Francesca Benedetti (Gerda), Pamela Villoresi (Lousie), Carlo Fortuna (Fischer), Ettore Gaipa (il postino), Rocco Cesareo (l’uomo che porta il ghiaccio), Elena Zo (Anne Charlotte), Valentina Fortunato, Antonellina Interlenghi.
Prima rappresentazione Milano, Piccolo Teatro, 20 giugno 1980

Dalla dimensione cosmica della Tempesta di William Shakespeare, alle sulfuree, anguste perfidie dell’inferno borghese del Temporale di August Strindberg. Là, l’isola-mondo sperduta in uno spazio-tempo analogici, qui un’isola-casa incombente con la quotidianità dei suoi oggetti comuni, tavoli, sedie, pianoforti, telefoni e come orizzonte una strada, una panchina, un albero solitario dove agiscono o piuttosto “sono agiti”, in uno stato tra sonno e veglia, dai loro destini umani, personaggi  che ognuno a suo modo hanno perduto, se mai l’hanno avuta, la capacità di vivere e persino morire, insieme.
Là lo sconvolgersi emblematico ed enigmatico insieme degli elementi primigenii e le onde infuriate di un mare che può travolgere ed uccidere o meglio “trasformare”, qui l’attesa quasi angosciosa di un temporale di fine estate con a tratti solo un lontano rombo di minaccia che arriva, non uccide, non trasforma, né lava, né risolve alcunché per coloro che l’hanno aspettato perché prigionieri del loro piccolo mondo privato, della loro privata disperazione, della loro sostanziale mancanza di reciproca pietà.  Non è concesso spingersi oltre nella comparazione delle due opere se non per rilevare certe misteriose risonanze che i poeti si rimandano nel tempo attraverso l’alfabeto dell’arte, dei simboli, delle metafore e che il teatro, nella sua ricerca, rende concrete accostando voci le più diverse e lontane. E certo la scelta del Temporale di Strindberg non nasce dai titoli e dalle assonanze. Ma certamente le registra.
Del resto, nel repertorio già così vasto del Piccolo Teatro ci sono dei vuoti che spaventano l’uomo di teatro onesto il quale vede tutta l’immensità del teatro che doveva, poteva, fare e sa che, in tutta una vita, non riuscirà mai a realizzare sul palcoscenico. Uno di questi vuoti è rappresentato da Strindberg e dalla sua opera. Ma non è il solo. […]
È da Strindberg che nasce tanta parte del teatro contemporaneo. A lui noi siamo debitori di temi, idee, metodi teatrali che ebbero poi vario sviluppo nel tempo, talvolta ricalcati o riecheggiati, tal’atra persino deformati, ma mai esauriti.
I suoi Drammi da Camera, una sorta di Kammer Musiken, mi sembrano poi, nella loro intimità apparente, la punta estrema della sua opera di drammaturgo, e regista, inventore di teatralità e questo non solo per ragioni cronologiche. E il Temporale può dirsi opera tra le più sottili e, al tempo stesso, complesse in cui si annodano e si mostrano quasi riassunti, con profonda semplicità, i grandi temi ripetitivi, vorrei dire ossessivi che con alterno rilievo ricorrono in tutto il suo teatro; per parte mia vi ho scorto, per altro, qualche figura diversa, nuova, e persino il rovesciamento di alcuni luoghi comuni strindberghiani.
Certo il teatro di Strindberg non sta tutto nel Temporale il quale però costituisce, pur nella sua forma di “teatro borghese”, di atmosfera, un’opera che travalica continuamente questi suoi apparenti confini, raggiungendo regioni inesplorate al suo tempo storico e forse ancora oggi.

La tensione estrema tra “realtà”, o meglio, “il possibile reale” del teatro e “l’irrealtà”, proprio perché di teatro si tratta, è avvertita qui come presenza ineluttabile. Durante il nostro lavoro ci siamo imbattuti si può dire minuto per minuto nella difficoltà di rendere quel travalicare, di cui si diceva prima, i limiti del quotidiano di questi personaggi che vivono, mangiano, camminano, amano, odiano e nello stesso tempo si trovano ad agire in una dimensione che sorpassa la loro storia, il loro destino o, più semplicemente, la loro “condizione umana” e, con la loro, la nostra, facendocela percepire quasi come una sorta di “condizione dell’universo”.
Nella prospettiva del “realistico”, il Temporale può essere visto come un breve tratto, lo spazio di qualche lampo, della storia, o meglio della tragedia di un “signore”, un ex funzionario in pensione, di suo fratello, della sua ex moglie che dopo anni “per strano caso” è tornata ad abitare nella stessa casa, con la figlia e il nuovo marito – che della bambina ora è il patrigno – e che dell’appartamento ha fatto, pare, una bisca.  Mentre il temporale minaccia e lampeggia, ma non scoppia, i personaggi fatalmente si incontrano, si scontrano e questo dà il via a una catena di inutilità, o vanificazioni, se così si può dire, dove il Signore tenta invano appunto di “non lasciarsi coinvolgere dalla vita”, il nuovo marito di fuggire con una nuova amante, la moglie fuggita di tornare alla casa, il fratello di “darsi da fare”, le frère et son double, si potrebbe sorridere, perché da unico amico del Signore, si rivela alla fine come ex amante della moglie.
E così la famiglia borghese, intesa qui come “carcere”, ci rivela la sua tragica meschinità. Passato il temporale, tutto sembra rientrare nell’ordine. Le cose “sembra che vadano a posto”, là dove regnano, cioè, la solitudine e il vuoto. A far da controcanto al dramma del Signore, vi è quello del Pasticcere, che sta al piano di sotto e ha una figlia che fugge, e quasi subito, sconfitta, ritorna mentre tutto riprende come se nulla fosse successo o come se tutto fosse successo da sempre: e qui ci ritroviamo davanti il circostanziato elenco di questi altri accadimenti, e il far conserve e metterle da parte per l’inverno, i dialoghi brevissimi con la figlia e quello, indecifrabile, fra il Pasticcere e la moglie semicieca che si vorrebbe anche sorda, e così via, controcanto a un universo, appunto, di ciechi e di sordi; o di aspiranti tali. Anche la figura di “Louise”, immagine di giovinezza e di una certa negativa saggezza, sembra dissolversi: è andata a spegnere la luce. Nel buio che scende, quel buio dell’autunno nordico per noi così misterioso, resta la luce pallida di un lampione a rischiarare la facciata di una casa, “topos” di ogni rendimento dei conti, che trascolorando si muta in uno schermo astratto dietro il quale si nascondono i fantasmi e i ricordi del passato.
In questo racconto di teatro c’è il caldo ghiaccio di un’estate piena di vapori, ci sono tutte le povere e piccole cose della vita, guanti, bottoni, bastoni da passeggio, una scacchiera per far da passatempo e ci dovrebbero essere stufe di maiolica e ritratti in cornice e pendole che suonano e palme che si specchiano nei vetri. Tutte cose che Strindberg annota minuziosamente, tutti oggetti scenici innumerevoli, quasi da “horreur du vide” e che poi Strindberg cancella in tanti suoi appunti dicendoci che “sulla scena è meglio che non ci sia niente” o che è “meglio recitare davanti ad un tendaggio con una sedia e un tavolo” e che la “più bella stanza” che egli avesse visto in teatro, era appunto per il Temporale “una stanza vuota, senza stufe, né porte, né finestre”. Ma questo contraddirsi è invece indice proprio di una di quelle disperate ricerche strindberghiane volte a oltrepassare i limiti appunto della metodologia drammatica del suo tempo e con essi oltrepassare il naturalismo delle cose e della azioni e che non trovano ancora per lui piena possibilità di esprimersi se non per bagliori o intuizioni irrisolte.  Tutto qui, in questo mondo “realistico o naturalistico” sembra “lente tranquilla”, tutto pare vibrare fra vita che resta e vita che va, “più breve del tuo fazzoletto”, come dice Montale e tutto qui è strazio “come unghie ai vetri”.
Ma il Temporale non può non essere visto anche nell’altra dimensione, di un “oltre” realtà, come una specie di crogiuolo dell’esistenza umana, coi suoi luoghi interiori ed esteriori: istituzioni, famiglia, l’amore possibile-impossibile, il capirsi e il non, il non sapere soprattutto accettare la “verità” propria ed altrui. Qui tutto è luce violenta di poesia che brucia. Qui agisce il gioco eterno dell’odio e dell’amore e degli egoismi del cuore umano, l’abisso del cuore umano dice Strindberg. E allora i mobili non sono più mobili, ma cose “cose” misteriose, come sospese nel vuoto universale, i barometri diventano pugnali o simboli del tempo che muta, gli scacchi ancora una volta diventano l’emblema della “partita” della vita con i suoi pezzi tali che “basta conoscere il movimento di ognuno di essi e il resto viene da sé”, l’ombra della palma diventa staffile crudele d’acciaio fatto per torturare carne e cuore, un lampadario diventa il notturno peccato, mentre i pianoforti si mettono a suonare da soli, la musica della pianola sale agli astri e un ombrello, sotto la pioggia, è il grottesco sfacelo di tutto il dolore umano.
La storia di questi umili oggetti di ogni giorno, e di questi uomini, divenuti oggetti anch’essi in una grande Terra Desolata, proprio quella di T. S. Eliot, si accende di una luce di magnesio e si proietta in una significazione universale che ci coinvolge e ci sconvolge ancora.
Tutto vero, relativamente vero, e plausibile e concreto e nello stesso tempo tutto inventato, fantasmatico, paurosamente “improbabile” e non per questo meno possibile, nel Temporale di Strindberg. Ed ecco allora, in questo scatenarsi dell’incertezza e dell’angoscia dell’esistenza, che il “primo lampione”, accendendosi, potrebbe diventare finalmente l’unica, anche se piccola, luce “da lanterna cieca” della ragione. La ragione, quella che, forse, può far commettere all’uomo qualche errore di meno in tutto quel buio che scende.
Il Signore dice forse qualcosa che davvero può essere accettato con questo significato, alla fine del dramma? O invece, oltre le parole che ci sono e pesano purtuttavia, è solo la mia tenace o disperata volontà di credere in questo valore nonostante tutto e ad ogni costo?
Rispondo che ognuno legge i poeti come può e sa. E che tutte le letture sono valide e vere purché non siano arbitrio ma sofferta interpretazione.
Esattamente come lo è stata la nostra rispetto a questo Temporale: tentativo di rendere vibranti, comprensibili molti dei piani poetici in esso presenti e molte delle sue implicazioni, tentativo di restituire almeno qualcosa della miscela esplosiva, della “nitroglicerina” strindberghiana, al pubblico perché questo, in qualche modo, l’aiuti a conoscere meglio, a capire meglio la vita, anche al di là dell’emozione “artistica” che resta, beninteso, il fondamento dell’arte e del teatro.